martedì 2 agosto 2011

Prologo


Mi svegliai a casa mia, come ogni santissimo giorno. L’orologio-sveglia situato sul mio comodino ticchettava piano lo scandire dei secondi che mi separavano al trillo delle otto in punto. Non l’ho mai sentito. O meglio: mi sono sempre svegliato venti secondi prima, di soprassalto, non so neanche io perché. E’ come se avessi sempre avuto un orologio interno che mi dicesse quando alzarmi, non l’ho mai sopportato. Mi vestii dopo un’abbondante colazione, mi lavai i denti con il nuovo dentifricio al fluoro che avevo comprato la sera prima: sapeva di nulla come tutti gli altri. Andai verso la porta, mi girai, vidi Cagliostro che mi guardava dal suo cuscino. Alzò lo sguardo, lo fa sempre quando me ne devo andare, sbadigliò, miagolò come per rispondermi su qualcosa che non avevo mai detto e tornò a dormire. Ho sempre voluto pensare che quello fosse il suo modo di salutarmi, di dirmi “vai che ti aspetto, ma non fare tardi che ancora non so mettermi i croccantini da solo”. Chiusi la porta a chiave e andai via. Verso nuovi obiettivi ed alti orizzonti, oserei dire, ma non era vero. Andavo a lavoro, quel fottuto lavoro che tutti sognerebbero ma che a me ha sempre fatto star male.

Avevo un lavoro in banca, una grossa banca. Una di quelle dove la gente con pochi soldi non pensa nemmeno di entrare. Una banca per ricconi che fa sì che il mio stipendio comprenda molti zeri. E a quei tempi avevo una relazione con una collega: Marzia. Che brutto nome, direi, ma che belle poppe aggiungerei. Marzia era l’esatto esempio di ragazza immagine. Non che non sia intelligente ma la gente difficilmente la osservava negli occhi nei primi cinque minuti in cui la conosceva. E nemmeno nelle successive due ore. Marzia era la nostra addetta alle pubbliche relazioni. Ovvero con le sue qualità doveva cercare di far distrarre i nostri clienti e convincerli ad accettare “fantastiche promozioni” che tanto fantastiche non erano. E ci riusciva. Grazie a sua madre e a suo padre aggiungerei.

Comunque avevo una relazione con lei che, alla fin fine, è sempre stata una ragazza a modo. E’ simpatica se beve un semplice centilitro di birra, le fa perdere leggermente le inibizioni. Non del tipo da ballare la lap dance in discoteca davanti a migliaia di sconosciuti, non è proprio il caso. Lei inizia a diventare sboccata, a fare battute oscene, a parlare in modo sconvolgente di tutto ciò può far impazzire un uomo: calcio, telefilm, donne. Una donna che parla di altre donne. Per molto tempo ho avuto il sentore che avesse cambiato sesso in passato, e che le sue due qualità fisiche su cui la nostra banca è poggiata(metaforicamente, ma secondo me potrebbe farcela anche realmente) fossero frutto di maestria chirurgica. Poi capii che mi sbagliavo. E di grosso. Non per entrare in particolari ma gli uomini credo mi capiranno: al tatto tutto si nota e sono pronto a giurare su ciò che mi è più caro, la mia collezione di serie americane, che quella è una donna meravigliosa e che è pura al cento per cento. “Pura” per quanto riguarda il chirurgo sia chiaro. In altri aspetti, e non vorrei vantarmi, è tutt’altro che pura e ciò non mi ha mai provocato alcuna tristezza, anzi.

Io e Marzia, comunque, non eravamo fidanzati. Nei tempi attuali il pensiero di trovarti una ragazza per la vita, sinceramente, è ben difficile da realizzare. Non eravamo neanche, come si dice, due amici che occupavano le serate a sollazzarsi amorevolmente insieme. Eravamo una coppia, ma una coppia libera dalle ricorrenze, dagli anniversari, dalle serate in coppia in un ristorante in cui devi prenotare due anni prima per pagare trecento euro per due portate minuscole. Devo dire che ci amavamo? Non credo. Più che altro lei era difficilmente odiabile, era una venere quando era nuda o anche vestita, era una camionista quando uscivamo in gruppo per andare in qualche pub, ed era un’amica quando le raccontavo dei miei problemi, delle mie sventure, dei miei sogni. Era unica. Ma in tutto il tempo che l’ho conosciuta non ho mai capito io cosa ero per lei. Ma forse non mi è mai interessato veramente.

E le giornate giravano sempre allo stesso modo, un circolo vizioso al quale mi ero lentamente assuefatto e che prevedeva solo piccoli slanci di novità che mi portavano ad amare la vita. Ma erano pochi, pochissimi. La mattina mi svegliavo e andavo a lavoro, il pomeriggio pranzavo e ritornavo a lavoro. Alle 17, orario accettabile, uscivo con quei pochi amici che mi rimanevano e qualche collega. Alle 21 eravamo già tutti a casa. E dalle 22 iniziavo a vivere. No, non sono un serial-killer il quale unico scopo è quello di uccidere per sentirsi vivo. O meglio: ne conosco uno ma è un protagonista di un telefilm che peraltro mi piace enormemente ma non solo un tipo da emulazioni macabre. Comunque a tarda serata finalmente avevo quegli attimi di vita che chiamavo “angoli di felicità”. Mi stravaccavo sul divano con Cagliostro sulle gambe, accendevo la tivù, inserivo il nuovo dvd appena comprato in una console e via, mi perdevo in quell’estasi di serie tv americane che mi hanno dato sempre tanta gioia. E in quegli attimi perdevo cognizione della realtà. Io ero lì dentro. Io ero Jack Bauer che cercava i terroristi, io ero Ted Mosby che cercava la sua anima gemella, io ero Jack Shepard che cercava un modo per uscire dall’isola, o per ritornarci successivamente. Ero ognuno di loro, ero parte di loro e loro erano parte di me. Lo so che si può pensare che sia un fissato ma non è vero. Sono sempre stato un ragazzo normale, cresciuto in modo normale, con amori normali e amici decisamente normali. Non ho mai amato i giochi di ruolo, non ho mai amato i videogames, non ho mai amato nemmeno le discoteche e i luoghi di divertimento perché, come direbbe appunto Ted, “tutto ciò che dovrebbe far divertire alla fine non diverte”. A me sono sempre solo piaciuti i telefilm. E mi sarebbe sempre piaciuto entrarci in quella televisione e vivere, in prima persona, tutto ciò che stava accadendo all’eroe o al comprimario di turno. Salvo essere ucciso, sia chiaro. O orribilmente mutilato. Ovvio.

E si sa, i sogni son desideri. Quella sera stessa suonò alla porta un mio amico, o meglio: un mio ex-conoscente delle superiori. Si chiamava Walter. Aveva sempre avuto un certo pallino per le invenzioni, per la scienza, per le scoperte scientifiche. Ha sempre detto che un giorno o l’altro avrebbe ricevuto un nobel, e poi iniziava a vagare col pensiero. Io gli rispondevo sempre “sì, per il taglio di capelli più osceno di tutta Europa”, lui rideva e ritornava sulla Terra. Poi una birra avrebbe calmato tutti i sogni e li avrebbe messi negli obiettivi da realizzare. A quei tempi il mio obiettivo più grande era non annoiarmi. E non ci ero riuscito.

Walter bussò alla porta tutto entusiasta. Gli aprii e me lo ritrovai davanti così come era sempre stato: un ragazzone alto e finto magro, con capelli osceni e degli occhiali così spessi che si potrebbero usare per accendere falò ai campeggi. Mi disse poche semplici parole.
“Ce l’ho fatta”.
Poi stramazzò al suolo.

Sicuramente era stanco. Lo presi tra le braccia e lo poggiai sul divano. Gli allungai le gambe fino all’altro bracciolo, ci entrò per miracolo, e gli presi un bicchiere di acqua. Lui si ridestò proprio quando ritornai.
“Amico mio, ho una notizia sensazionale da dirti!”
“Hai trovato una gelatina che potrebbe abbassarti quelle enormi creste oscene?”
“Non credo potrebbero mai inventarla!”
“Credo sia più probabile una cura contro il cancro, direi.”
Rise.
“Non hai perso la tua vervè umoristica, noto.”
“Certo che l’ho persa. Dove lavoro io non esiste simpatia.”
“Ma esistono belle ragazze, vedo, chi è questa maggiorata che ti abbraccia nella foto” – aveva preso un quadretto di me e Marzia assieme a lavoro. Non so nemmeno perché la facemmo quella foto, non so nemmeno perché l’avevo messa in una cornice, aggiungerei.
“Sì, si chiama Marzia. E’ la mia…non so come definirla.”
“Ragazza?”
“Sì, diciamo una cosa del genere.”
“Noto che non hai perso la passione per le donne piatte e senza curve.” – disse con un leggero carico di ironia.
“Che ci vuoi fare, sono un esteta. Mi piace il bello. Mi piaci tu.”
“Altolà, uomo, niente battute omosessuali. Non più dopo quella notte.”
“Quando mio fratello sbronzo ti baciò con la lingua?”
“Ecco. E poi ti sei domandato perché non volessi più tornare a casa tua. Ho ancora i brividi a pensarci.”
“Ma devi pur aggiungere che anche la sua ragazza ti baciò con la lingua e ti fece ben altro.”
“Ah sì, Rita ti saluta e ti ringrazia ancora per averci fatto conoscere. E sposare.”
“Ricambia. Quel giorno cambiarono molte vite, ora mio fratello si è sposato in Spagna. Sei stato il suo bacio chiarificatore ti rendi conto?"
"Avrei preferito non esserlo."
"Mai che tu sia contento. Comunque cosa volevi dirmi?”
“Che ci sono riuscito.”
“A fare cosa?” – mi sedetti, Walter bevve il suo bicchiere e si avvicinò a me. Mi mise
una mano sulla spalla e la strinse.
“Il nostro sogno. Te lo ricordi?”
“Non mi dire. Non è possibile. Stai scherzando!”
“Nessuno scherzo. E’ tutto vero. Domani si parte, Daniel. Domani si parte!” – e svenni. Senza pensarci due volte.

1 commento:

Carmensì ha detto...

ma non mi puopi lasciare così, odio i finali così... io sono stracuriosa uffi!

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