sabato 14 agosto 2010

(3)



Quando ti svegli la mattina alla fin fine lo sai come andrà la giornata. Lo senti. Alcuni lo chiamano sesto senso, altri terzo occhio, altri ancora pensano che sia un’abilità che ognuno ha ma che pochi usano, d’altronde molti affermano che usiamo a malapena il cinque per cento del nostro cervello. L’altro novantacinque a qualcosa dovrà pur servire. Molti potranno pensare che sia una parte del nostra materia grigia riservata alle cosiddette “attività speciali”: la telepatia, la telecinesi, il teletrasporto, il telepiù. Ma sbagliano. Una buona fetta di quella roba contenuta nel nostro cranio è un contenitore, un semplice contenitore di tutti i film porno stipati durante l’adolescenza, come se fossero racchiusi tutti in un moderno hard disk. Da aprire in caso di necessità. Prima di andare a dormire, durante la carestia più estrema o magari solo per puro sollazzo. Si apre la porta e via, si entra in un mondo che già si conosce ma che ad ogni visione è ancora più bello. E il rilassamento regna sovrano.
Comunque Dario, quella mattina, aveva un certo sentore di qualcosa di strano. Quel “senso di ragno” che ognuno ha ma che nessuno, se non si viene colpiti da un ragno geneticamente modificato, può attivare gli aveva dato una leggera scossa. In un attimo, poi, capì che quella sensazione era giusta.

Un barbone, o come cavolo lo si vuole chiamare, buttato sotto da un qualsiasi elemento guidante di una città qualsiasi. In un secondo. Un attimo lo vedi, l’attimo dopo giace a terra. Non c’è una pozza di sangue, non c’è nessuna vistosa frattura visibile, non c’è niente. Ma il guidatore idiota non lo sa, e fugge. Un altro attimo dopo la gente si accalca, una poveretto è a terra, inizia il teatrino. Ominidi che si improvvisano dottori chiedendo in che punto il dolore sia più forte, signore attempate che quasi svengono alla vista di quel derelitto giacente al suolo, uomini che riescono solo a pronunciare le fatidiche parole “lasciatelo respirare”, e altri che telefonano prima ai familiari per tranquillizzarli sulle loro condizioni e poi decidono, per un eccesso di umana pietà, di chiamare un’ambulanza. E’ la natura umana di fronte ad un evento improvviso, sconvolgente, non previsto. Ognuno in quel frangente occupa un ruolo, Dario si sentiva il buon samaritano.

“Lo accompagno io all’ospedale” – sussurrò quasi, con un filo sottile di voce. Per la folla fu come se fosse salito su un grattacielo con un megafono collegato a dodici impianti stereo e avesse annunciato a gran voce che il regno dei cieli era pronto e li avrebbe accolti tutti, senza discriminazioni. Cori entusiasti di liberarsi di quel peso si udirono in un attimo o poco più. La marmaglia si aprì come acque davanti a Mosè, alcuni presero il povero malcapitato e lo posizionarono sul sedile del passeggero nella macchina di Dario. Il mondo tornò alla normalità. Ma non per tutti.

“Sono solo pochi chilometri, tieni duro, non ti preoccupare.” – disse, senza ottenere la benchè minima risposta. Dario non sapeva assolutamente cosa dire, che fare, come guadagnarsi la fiducia di un uomo a cui, secondo lui, la vita ha tolto tutto. Non le insegnano a scuola queste cose, non le insegnano all’università, non le insegnano a lavoro, a meno che non si decida di intraprendere una strada verso la psicologia. E molte volte è inutile anch’essa. Il barbone rantola e biascica parole senza senso, il guidatore pensa a qualsiasi cosa lo possa far sentire meglio. Decide allora di ripescare parte del suo hard disk mentale, si posiziona davanti al dvd onirico e cerca un rilassamento che non arriva e che è meglio non far arrivare mentre si guida.
“Si rischia di buttare barboni sotto”, pensa Dario, “e poi la giornata viene irrimediabilmente compromessa”. Telefonare al lavoro per avvertire che si fa tardi è cosa buona e giusta ma cosa dire? “Capo, mi scusi, ma stamattina ho deciso di anticipare la mia buona azione quotidiana e sto accompagnano un povero clochard puzzolente all’ospedale, sì, l’hanno colpito con una vettura e l’attentatore è pure scappato”. Sembra la trama di un film depressivo, non ci crederà mai nessuno. Si potrebbe buttarla sulla consuetudine tipo “Capo, qui c’è troppo traffico, credo che arriverò tra un’ora o più”, peccato che l’ufficio sia solo a dieci chilometri da qui. Oppure sul fantascientifico “Capo, sento una vibrazione negativa che mi costringe a non uscire di casa almeno per un’altra ora, appena riesco ad eliminarla, le prometto che arriverò seduta stante presso di lei e la sua azienda”. Perfetta. Una scusa perfetta. Per ambire al licenziamento.

Intanto, pensando pensando, l’ospedale è a due passi. Il vecchio, età compresa dai trenta agli ottantamila, continua il suo discorso col nulla e Dario, di par suo, decide che è meglio che continui, significa che è ancora vivo. Spara, quasi senza volerlo, un normalissimo “Come ti chiami”, una di quelle frasi usate o alle elementari per fare amicizia o nel resto della vita per conoscere tipe, la risposta comunque, non la si ottiene. Il pronto soccorso è sulla destra, il piano è semplice: niente manovre eccezionali da fare, scaricare il vecchio in cinque minuti, firmare un paio di carte, augurare buona vita e una pronta guarigione al derelitto, stringere un paio di mani ai dottori, guardare qualche deretano di deliziose infermieri, ritornare in macchina e andare via, verso l’infinito ed oltre. Piano semplice. Attuazione semplice.

Dario esce dalla macchina, chiama gli infermieri, non osserva le loro natiche, arriva una dottoressa, voto otto più, farfuglia qualcosa ma purtroppo lui è imbambolato sulla beltate disumana della suddetta. Riesce solo a recepire le parole “è un suo parente o amico?”, la risposta è “No, no. Trovato per strada”. Lo sguardo della gentile laureata in medicina è sul preoccupato-spaventato, Dario corregge il tiro: “No, non sono uno che raccatta barboni. E’ stato investito, l’ho raccolto, e l’ho portato qui dopo aver notato che non aveva niente di rotto”, e sfoggia il suo miglior sorriso, molto simile al suo peggior sorriso. La dottoressa sorride anche lei, impartisce due ordini agli infermieri, saluta e dimentica per un attimo il povero Dario e di nuovo quel senso di ragno si fa sentire, una specie di ronzio che non accenna a diminuire di intensità ma che, anzi, si fa sempre più forte nella testa.

“Mi chiamo Fulgenzio, e lui è mio fratello” – afferma il barbone.

“Fulgenzio”, pensa Dario, “e’ ovvio che con un nome così uno si ritrova a vivere per strada”. Poi rimugina su un altro po’.

“Fratello!!!”

Il senso di ragno batte all’impazzata.

1 commento:

Carmensì ha detto...

Povero fulgy! mi dispiace per lui uffi:(

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